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Il processo a Giordano Bruno

di Redazione, 17 febbraio 2022

Perché Giordano Bruno è stato arso vivo il 17 febbraio 1600? Si tratta di un martire della scienza o di qualcos’altro? In questo articolo ricostruiamo le tappe che hanno portato alla sua morte.

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Giordano Bruno era un frate domenicano apostata, che nel 1576 fuggì dal convento di San Domenico Maggiore per sottrarsi a un processo per eresia. Da qui inizia un periodo di peregrinazioni per tutta l’Europa: Giordano Bruno guadagna una fama crescente di grande mago, di iniziato ai misteri della tradizione ermetica; la dote che più lo distingue e lo fa notare è il possesso di una memoria prodigiosa, risultato di una sofisticata mnemotecnica che coltiva fin dalla giovinezza. Nel 1579 aderisce, a Ginevra, al calvinismo, per poi esserne scomunicato. Frequenta in Francia la corte di re Enrico III di Valois e successivamente in Inghilterra quella della regina Elisabetta.

Perché Giordano Bruno andò in Inghilterra

Secondo la studiosa inglese Francis Yates Bruno è in realtà inviato in Inghilterra dal re francese con un preciso mandato politico-culturale: convertire i circoli colti che ruotano attorno alla corte inglese ad una nuova forma di religiosità egiziana, di natura magica, della quale Bruno appare come l’annunciatore e il maestro in virtù della sua profonda conoscenza e rielaborazione della tradizione ermetica. 

Un’altra ipotesi, dello storico John Bossy vede Giordano Bruno in qualità di spia all’interno dell’ambasciata francese a Londra, presso la quale viveva come ospite dell’ambasciatore Michel de Castelnau. Bruno avrebbe collaborato con i servizi segreti inglesi di sir Francis Walsingham per sventare i progetti dei cattolici inglesi, appoggiati dalla potente famiglia francese dei Guisa, contro Elisabetta. In questo ruolo occulto Bruno, oltre a tradire la fiducia dell’ambasciatore che lo ospita e lo protegge in più occasioni e al quale dedica diverse delle sue opere, non esita ad usare la sua attività di sacerdote, che esercita segretamente all’ambasciata, per carpire in sede di confessione informazioni utili alla sua attività spionistica. 

Giordano Bruno si reca a Venezia

Dopo l’intensa esperienza inglese Bruno torna per un breve periodo a Parigi e, successivamente, vive in diverse città dell’area tedesca per periodi più o meno lunghi, come Marburgo, Wittemberg, dove tesse un appassionato elogio di Lutero, Praga, Helmstadt (dove riceve la terza scomunica, dai luterani, dopo quella cattolica e calvinista), Zurigo, Francoforte. Qui viene raggiunto da un invito a recarsi a Venezia, dove giunge prima dell’agosto del 1591.

Non è chiaro del perché Bruno si sia recato nella Repubblica di Venezia, dove operava l’Inquisizione. Il Corsano in un suo scritto del 1940 (Il pensiero di Giordano Bruno nel suo sviluppo storico) ipotizza che Giordano Bruno fosse tornato in Italia avendo in realtà lo scopo ultimo di recarsi dal papa e di soggiogarlo con i poteri magici di cui si ritiene ormai in possesso, spingendolo ad una riforma in senso magico-egiziano della religione cattolica.

Dopo pochi mesi di permanenza a Venezia, il 23 maggio del 1592 Giordano Bruno viene denunciato al tribunale dell’Inquisizione dal Mocenigo, colui che lo ospitava. Il processo, che è diviso in due grandi fasi, quella veneziana e quella romana consterà di una lunga serie di interrogatori; le sue tappe fondamentali sono così divisibili: i sette interrogatori veneziani che si concludono con l’abiura e la richiesta di perdono e di clemenza da parte di Bruno; gli innumerevoli interrogatori romani; la censura dei libri del filosofo; infine la condanna e la morte.

La fase veneta del processo a Giordano Bruno

Nella fase veneta Bruno probabilmente si sente favorito dal fatto che era ben noto il desiderio di indipendenza di Venezia rispetto a Roma anche sul piano della persecuzione dell’eresia, della quale peraltro la città lagunare con i suoi traffici e i suoi intensi scambi con il territorio tedesco, rappresentava una delle principali vie di penetrazione nella penisola, soprattutto a livello di mercato librario.

Le accuse che il Mocenigo ha scagliato contro Bruno sono comunque molto gravi e ben circostanziate; esse sono raggruppabili in alcune aree fondamentali: il grande mago è accusato di avere opinioni avverse alla Santa Fede e di aver fatto dei discorsi contrari a essa e ai suoi ministri; di avere opinioni gravemente errate sulla Trinità, la divinità di Gesù Cristo e l’incarnazione; di avere opinioni erronee sul Cristo; di avere opinioni erronee sulla transustanziazione e la S. Messa; di sostenere l’esistenza di molteplici mondi e la loro eternità ; di credere alla metempsicosi; di occuparsi di arte divinatoria e magica; di non credere alla verginità di Maria. A queste si aggiungono numerose altre accuse minori.

La situazione processuale di Bruno è però resa meno drammatica dal fatto che, in base al principio giuridico del testis unus, testis nullus, in assenza di una confessione spontanea dell’accusato è difficile che si giunga a una condanna, e tanto meno a una condanna grave. Va ricordato inoltre che lo stesso principio impediva di sottoporre a tortura un imputato che non avesse a suo carico almeno due testimonianze pienamente valide, di persone incensurate e di provata moralità.

La linea difensiva di Giordano Bruno

Di fronte alle accuse che il suo insidioso avversario gli ha scagliato contro Bruno adotta una precisa strategia difensiva, che manterrà inalterata fino alla fine: ammette tutto ciò che gli sembra avere una rilevanza minore sul piano processuale; nega le accuse più infamanti e offensive verso la Chiesa; sottolinea che la ricerca filosofica che lo ha portato ad affermazioni eretiche è sempre stata condotta da lui esclusivamente secondo il "lume naturale", senza né pretese teologiche, né, intenzioni consapevolmente eretiche. 

Quanto al suo rapporto con la Chiesa ribadisce di aver sempre rispettato i divieti derivanti a lui dal suo stato di apostasia, ma di aver tentato ripetutamente di rientrare nel suo seno. È una strategia complessa e, per più di un aspetto, non priva di rischi, giocata tutta in realtà sulla sua capacità di impressionare favorevolmente i giudici. E senz’altro a Bruno non mancano le doti di grande parlatore, capace di incantare gli ascoltatori e di sedurli con la sua cultura.

Il processo "offensivo" veneziano (ovvero la parte in cui l’imputato viene invitato una prima volta a difendersi e a rendere ragione delle accuse che gli sono rivolte) si sviluppa in modo lineare, senza che intervengano elementi particolari, ed è in sostanza favorevole a Bruno, anche perché gli altri testimoni coinvolti dal Mocenigo hanno rilasciato testimonianze molto neutre o addirittura assolutorie.

Giordano Bruno implora il perdono agli inquisitori di Venezia

Il 30 luglio 1592, data dell’ultimo interrogatorio veneziano, Giordano Bruno si getta in ginocchio davanti agli inquisitori ed implora il loro perdono :

Domando humilmente perdono al Signor Dio e alle Signorie Vostre illustrissime de tutti li errori da me commessi; et son qui pronto per essequire quanto dalla loro prudentia sarà deliberato et si giudicarà espediente all’anima mia. (...) et se dalla misericordia d’Iddio et delle Vostre Signorie illustrissime mi sarà concessa la vita, prometto di far riforma notabile della mia vita, ché ricompenserò lo scandalo che ho dato con altretanta edificatione

Si tratta di un gesto di grande effetto che avrebbe probabilmente sortito un esito positivo se il Sant’Uffizio non avesse chiesto di avocare la causa a Roma. Nel 1581 infatti la Congregazione Generale del Sant’Uffizio aveva stabilito che da tutte le province italiane gli Inquisitori inviassero regolarmente a Roma un sommario di tutti i processi in corso, per poter ricevere in tal modo istruzioni quanto al modo di procedere o alla sentenza. Solo in arduis causis, ovvero nelle vertenze più complesse e difficili, veniva però inviata copia alla Congregazione inquisitoriale romana di tutti gli atti processuali. E ciò è appunto quanto accade nel caso di Bruno, la cui causa il Sant’Uffizio chiede a Venezia di poter trasferire a Roma. 

Giordano Bruno arriva a Roma per il processo

La richiesta di avocazione della causa di Bruno viene accolta con insolita facilità dal Senato veneziano, normalmente custode geloso delle proprie prerogative e della propria sovranità, e Bruno giunge a Roma il 27 febbraio 1593, per venire rinchiuso nel carcere del Sant’Uffizio. Contrariamente a quanto si è abituati a pensare la cella in cui Bruno viene rinchiuso e dove rimarrà per sette anni è tutt’altro che una segreta buia e inaccessibile, ma è al contrario un luogo abbastanza vivibile, ampio e luminoso, situato al piano terra, dove la biancheria viene cambiata due volte alla settimana e dove l’imputato può usufruire di vari servizi come il barbiere, i bagni, la lavanderia, la rammendatura.

A ogni carcerato veniva fornita una scorta di vestiti e il vitto era di buona qualità includendo, fra l’altro, anche il vino. I cardinali membri del Sant’Uffizio visitano i carcerati regolarmente per ascoltare loro eventuali bisogni particolari; nei verbali rimane ad esempio traccia della richiesta avanzata da Bruno di avere un cappello di lana per l’inverno e una copia della Summa di Tommaso, richieste prontamente soddisfatte.

La situazione di Giordano Bruno si complica

Pochi mesi dopo l’arrivo di Bruno a Roma la sua situazione viene inaspettatamente compromessa dalla comparsa di un nuovo testimone dell’accusa, il frate cappuccino Celestino da Verona, suo compagno di carcere a Venezia, che morirà a sua volta sul rogo nel 1599. Il suo ex concarcerato denuncia Bruno lanciandogli contro un insieme di accuse gravissime, che in parte confermano l’impianto accusatorio del Mocenigo, in parte aggiungono nuovi capi d’accusa a suo carico. Inoltre Celestino chiama in causa come testimoni altri quattro compagni di carcere di Bruno a Venezia, che a loro volta confermano gran parte delle accuse.

È una svolta gravissima per Bruno che col suo atteggiamento (leggendo i verbali ci si accorge che in cella non solo aveva un atteggiamento opposto a quello che teneva durante le sedute del processo, dove simula un pieno pentimento e dove giunge a chiedere perdono; ma anzi si permette confidenze e comportamenti che tradiscono, come minimo, una sicurezza eccessiva di sé oltre a un animo incline alla volgarità e alla blasfemia) ha compromesso quella che fino a quel momento era una posizione processuale abbastanza solida proprio perché doveva difendersi da un solo accusatore. 

Ora vi sono invece sei testimonianze abbastanza concordi, anche se, non va dimenticato, cinque di queste sono di carcerati a loro volta sospettati o condannati per eresia, e quindi meno attendibili di quella del Mocenigo.

Il processo ripetititivo

Terminato il processo offensivo con l’interrogatorio di Bruno su tutte le nuove accuse ha inizio il processo ripetitivo; questo aveva luogo se dopo la conclusione dell’interrogatorio dell’imputato, questi non era riuscito a dimostrarsi innocente, né si era confessato colpevole. In tal caso riceveva una copia di tutti gli atti processuali e aveva del tempo a disposizione per studiare gli incartamenti che lo riguardavano e per preparare una difesa basata su un elenco di interrogatoria, ovvero di domande volte a confutare o a indurre a contraddirsi i testimoni dell’accusa nonché a verificare l’attendibilità della loro persona e della loro testimonianza e i loro costumi.

Bruno sceglie dunque la strada del processo ripetitivo, una strada resa difficile dalla compattezza e dall’ampiezza dell’impianto accusatorio, e rinuncia all’alternativa che consisteva nel non preparare gli interrogatoria e nell’affidarsi alla clemenza della corte, confessandosi implicitamente colpevole.

Dopo il processo ripetitivo resta a Bruno un’ultima possibilità di difesa: ricevuta copia anche di tutto il processo ripetitivo egli ha il tempo per studiarla e per preparare un lungo documento difensivo di un’ottantina di pagine che consegna agli inquisitori il 20 dicembre 1594.

Le censure dei libri di Giordano Bruno

All’inizio del 1595 i giudici, resi particolarmente prudenti forse dal fatto che solo il Mocenigo era un testimone irreprensibile e incensurato, essendo gli altri concarceratos criminosos, ordinano che venga recuperato il più ampio numero possibile di testi pubblicati da Bruno per poter unire alle prove raccolte attraverso le testimonianze, quelle, irrefutabili, derivanti dai suoi testi. Per due anni il processo langue, essendo il tribunale probabilmente impegnato nella ricerca dei libri del nolano. Finalmente nell’aprile del 1596 viene istituita una commissione di sei teologi affinché valutino i testi e ne estrapolino proposizioni o tesi palesemente eretiche e nel marzo del 1597 Bruno riceve le censure dei libri dove emergono con chiarezza alcune sue posizioni eretiche.

Le censure dei libri enucleano e condannano alcune delle fondamentali tesi della metafisica bruniana, ritenute in evidente contrasto con fondamentali aspetti della visione cristiana del mondo: ad esempio condannano il principio, sostenuto con vigore in particolare nel De la causa, per cui da una causa infinita debba derivare un infinito effetto, tesi eretica in quanto implicherebbe un Dio necessitato a produrre un dato effetto e non onnipotente; la quinta censura condanna il moto della Terra difeso ne La cena de le ceneri; la settima condanna l’idea bruniana della terra come di un grande animale dotato di un’anima sensitiva e razionale. Bruno non si difende con troppa efficacia: logorato dai lunghi anni del processo, dalle infinite pause ed attese, probabilmente sfiduciato quanto alle possibilità di ottenere un’assoluzione, perde in parte lucidità nelle argomentazioni.

L'intervento del cardinal Bellarmino

Poiché il processo langue da troppo tempo (va fra l’altro ricordato che il caso di Bruno è del tutto anomalo ed eccezionale nel panorama dei processi inquisitoriali, che si distinguevano in genere per la loro rapidità) si giunge infine, grazie al cardinal Bellarmino, che pochi anni dopo sarà grande protagonista del caso Galileo, ad identificare una possibile via d’uscita dall’impasse in cui si trova il procedimento.

Bellarmino, autorevolissimo teologo gesuita, autore di un importantissimo catechismo e futuro santo, propone di sottoporre a Bruno un gruppo di proposizioni sicuramente eretiche estratte dagli atti del processo chiedendo all’imputato - del quale, va ricordato, la Chiesa cerca innanzitutto un pieno reintegro nel suo seno e nella fede - e di abiurarle. 

L’elenco viene proposto a Bruno il 18 gennaio 1599 con un limite temporale di sei giorni per prendere una decisione conclusiva. Si tratta di una scelta decisiva: se abiura, non essendo relapsus, ovvero non essendo già stato condannato per eresia in passato, il filosofo di Nola quasi sicuramente andrebbe incontro a una detenzione probabilmente non troppo lunga, seguita da una reintegrazione nell’Ordine; se rifiuta di abiurare non ha praticamente nessuna speranza di sfuggire al rogo.

Le proposte di abiura di Giordano Bruno

Dopo sei giorni Bruno si mostra disposto ad abiurare ma fallisce il suo tentativo di ottenere la condanna come eretiche delle sue proposizioni solo ex nunc, ovvero a partire dal momento del processo, e non ex tunc, ovvero per dottrina costante della Chiesa. 

Dopo un nuovo ultimatum di quaranta giorni, il 15 febbraio Bruno, nel corso del suo ventesimo interrogatorio, si dichiara disposto ad abiurare totalmente. Mentre si procede a preparare il testo della condanna, il 5 aprile Bruno ritorna sui suoi passi e avanza dei dubbi in un documento su due dei punti da abiurare

I giochi vengono così riaperti e devono passare molti mesi per arrivare a un nuovo conclusivo ultimatum: il 10 settembre 1599 il filosofo si dichiara nuovamente disposto all’abiura più completa, per ritornare suoi passi in una lettera a papa Clemente VIII pochi giorni dopo. Ricevuto un secondo ultimatum (che rappresenta un’eccezione nelle procedure inquisitoriali) di quaranta giorni per decidersi ad abiurare; Bruno però allo scadere del periodo che gli era stato concesso dichiara di non aver niente da abiurare. È la fine.

Il papa ordina che egli venga condannato come eretico impenitente e che la causa "venga spedita", ovvero che si emetta la sentenza e che il condannato venga preso in consegna dalla giustizia secolare per l’esecuzione. È il 20 gennaio 1600. In questa stessa data un memoriale di Bruno, molto probabilmente un’ennesima manifestazione di disponibilità ad abiurare, non viene letto, essendo ormai scaduti i quaranta giorni. Il 17 febbraio, sul far dell’alba, in piazza Campo de’ Fiori , viene acceso il rogo; una testimonianza racconta che nei suoi ultimi istanti di vita Bruno abbia pronunciate le seguenti parole: "Et diceva che se ne moriva martire e volentieri, et che se ne sarebbe la sua anima ascesa con quel fumo in paradiso".


Bibliografia

V. Spampanato, Vita di Giordano Bruno, Gela editrice, Roma, 1988

L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, Salerno editrice, Roma 1993

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N. Benazzi - M. D’Amico, Il libro nero dell’Inquisizione, Piemme, Casale Monferrato, 1998

Articolo originale di Matteo d’Amico, KOS, rivista dell’istituto universitario scientifico san Raffaele, numero 178 del luglio 2000

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