Ma la Legge 40 funziona o no?

a cura di Stefano Grossi Gondi
Premessa
Nel giugno 2007 il Ministro della Salute Livia Turco ha presentato una relazione  sullo stato di attuazione  della legge 40 del 2004 in materia di procreazione assistita, presentando dati relativi al 2005, quindi il primo anno, a cura del registro nazionale dell'Istituto Superiore di Sanità.
Le conclusioni del Ministro, ampiamente riportate dalla stampa, parlano di un esito negativo della legge, sottolineando il fatto che la percentuale di gravidanze ottenute sui prelievi è scesa dal 24,8% del 2003 al 21,2% del 2005 con una riduzione di 3,6 punti percentuali. La perdita ipotetica è stata calcolata nei termini di 1.041 gravidanze ed alcuni titoli di giornali hanno parlato di “culle vuote” e della necessità di rivedere la legge.

Insufficienza di dati
Da un’attenta lettura della Relazione dell'Istituto Superiore di Sanità emergono alcuni aspetti che sono stati tralasciati dai media e che portano a conclusioni un po’ diverse. Innanzitutto la perdita di dati. Dice la Relazione che «in generale la percentuale di gravidanze perse al follow-up è pari al 41,3%. Il dato se riferito ai soli Centri operanti nelle regioni del Centro Italia, cresce fino al 63,6%»
Quindi alla ricerca manca circa la metà dei dati, e la Relazione commenta: «Una perdita di informazioni così elevata è inaccettabile e non permette di fare analisi sulla reale efficacia e sulla sicurezza dell’applicazioni di tale tecniche».
A questo punto qualunque conclusione, con relativi commenti, sembrerebbe inutile e fuorviante.
Il discorso potrebbe concludersi qui, ma proviamo a fornire qualche altro dato.

I Centri per la fecondazione assistita
La Relazione confronta i dati dei pochi centri che, nel 2003 (quando non esisteva il registro poi introdotto dalla legge) volontariamente fornivano alle Istituzioni europee (Registro Esrhe) e quelli di tutti i centri oggi iscritti nel Registro. I primi erano quelli storici, più efficienti e con maggiore esperienza accumulata, i secondi sono molto più numerosi, in maggioranza nuovi, con esperienza limitata e quindi necessariamente meno efficienti.
Il confronto 2003-2005 è quindi tra dati disomogenei.

Una legge che impone rigore
Intervistata da Avvenire, la dott.ssa Eleonora Porcu, esperta di fama internazionale nel campo della fecondazione artificiale, responsabile del Centro di sterilità e procreazione medicalmente assistita all’Ospedale Sant’Orsola-Malpighi di Bologna, ha spiegato che il nuovo metodo di lavoro introdotto dalla legge «sicuramente è molto impegnativo, e richiede più risorse, anche economiche, da parte degli operatori, perché la legge 40 impone condizioni di lavoro più rigorose: ad esempio, laddove non permette più di inseminare un numero indefinito di ovociti e di selezionare l’embrione migliore da impiantare. Questa procedura, vietata dalla legge, in termini pratici sarebbe sicuramente più facile da realizzare, anziché impegnarsi per selezionare prima gli ovociti, come si fa oggi. Ma noto che la maggior parte dei miei colleghi non riesce ad accettare le limitazioni contenute nella legge e a cambiare stile di lavoro. I risultati ora possono essere raggiunti solo da centri che hanno uno standard di personale, competenze e attrezzature adeguato. Non sono d’accordo con quanti auspicano regole così flessibili da permettere di ottenere risultati con qualunque tipo di struttura e competenza: così si rischia di realizzare una medicina al servizio del risultato a qualunque costo».

Età avanzata delle coppie
Il 60,7% dei cicli risulta effettuato su coppie oltre i 34 anni. La Relazione commenta che l’età elevata delle pazienti che accedono alle tecniche è un dato penalizzante rispetto ai risultati che è possibile ottenere grazie all’applicazione dei trattamenti di fecondazione assistita.  Si può ipotizzare che dal 2003 sia cresciuta l’età media delle donne che utilizzano la fecondazione assistita, ma in realtà non ci sono dati per poter fare un confronto.

La questione del numero di embrioni  
Una delle critiche più forti alla legge 40 riguarda il limite di tre embrioni da utilizzare nel processo di fecondazione. La Relazione ci informa che  il 18.7%  dei trasferimenti è avvenuto con 1 solo embrione, il 30.9% con 2 embrioni e il 50.4% con 3 embrioni. Più della metà dei trasferimenti, quindi, avviene con tre embrioni. «Questi dati – si legge nella Relazione - sono in controtendenza rispetto a molti paesi europei, che sono sempre più orientati a trasferire un solo embrione e con più alto potenziale di sviluppo, in base alle caratteristiche e all’età  della donna, al fine di limitare le gravidanze gemellari che sono fonte di patologia perinatale e materna».
Se ne deduce che il problema è opposto a come viene presentato: offre maggiori possibilità di successo trasferire un solo embrione piuttosto che un numero indiscriminato. In questo la legge sembrerebbe quasi troppo aperta.  D’altra parte, la riduzione del numero di embrioni impiantabili è giustificato da un principio di tutela degli embrioni stessi.
Carlo Casini, presidente del Movimento della Vita, fa osservare che «se con un solo prelievo dal corpo di una donna vengono estratti molti ovociti e tutti vengono fecondati è possibile effettuare una pluralità di trasferimenti in utero, mentre alla formazione di un massimo di tre embrioni può seguire un solo trasferimento». La conclusione è che «il confronto andava fatto non sui prelievi ma sui trasferimenti».

La tutela degli embrioni
«Confrontando le percentuali di gravidanze su trasferimenti effettuati, con le medesime percentuali riferite ad altri Paesi, si nota come in Italia queste siano più ridotte, anche perché la legge n. 40/2004, impone il trasferimento di tutti gli embrioni prodotti, eliminando la possibilità di esclusione degli embrioni con scarsa capacità evolutiva e scarsa probabilità di impianto».
Da quanto dice la Relazione se ne deduce che un certo numero di insuccessi siano dovuti anche alla scelta etica di salvaguardare l’embrione – per via della sua natura umana - ed evitarne la distruzione indiscriminata. Un confronto quindi tra cultura “utilitaristica” e cultura “umanistica”.
A tal proposito la dott.ssa Eleonora Porcu ha osservato che « il punto nodale di questa legge, da cui dipende tutto il resto, è costituito dal fatto che l’embrione è considerato un soggetto degno di tutela. Personalmente fatico a comprendere chi non lo ritiene tale, dal momento che ha il patrimonio genetico del soggetto adulto che diventerà, e in nessuna della sue fasi di sviluppo c’è una discontinuità in base alla quale si possa distinguere con esattezza la sua condizione di embrione da quella di feto e poi, di bimbo. Naturalmente, se non si condividono queste affermazioni, tutta la legge 40 è insensata e foriera di inaccettabili divieti. In realtà, però, è la stessa evidenza scientifica a imporci cautela e rispetto nel trattare gli embrioni. Non sappiamo esattamente cosa siano, e già questa è una condizione sufficiente per trattarli con estrema delicatezza. Per questo penso che, anche se i risultati fossero inferiori – ma non è così – valga la pena di tutelare l’embrione. Ma la cosa davvero sorprendente è scoprire che è possibile rispettare l’embrione senza sacrificare l’efficienza della tecnica e i risultati».