Una riflessione sull’omosessualità | documentazione.info

Una riflessione sull’omosessualità

di Giacomo Samek Lodovici «il Timone» n. 50, febbraio 200

Diciamolo subito: gli omosessuali hanno la stessa dignità di tutte le altre persone, né più né meno. Non la vogliamo minimamente discutere, né vogliamo essere insensibili alla sofferenza di molti omosessuali che non additano la loro condizione come ideale da seguire (come fanno invece gli attivisti gay). Non vogliamo sostenere l’immoralità dell’attrazione verso persone dello stesso sesso, cioè degli impulsi omosessuali (perché, pur essendo essi oggettivamente disordinati, del loro sorgere, in vari casi, non si è responsabili), bensì quella degli atti omosessuali, senza per questo voler giustificare qualsiasi intervento coercitivo-punitivo da parte dello Stato nei loro confronti.

Omosessuali non si nasce
Non esistono fattori genetici e/o ormonali che impongano ad una persona di agire necessariamente in modo omosessuale.
1) Provare degli impulsi non significa essere costretti ad assecondarli: sia un eterosessuale che un omosessuale sono liberi di non avere relazioni sessuali con un uomo o una donna verso cui sentono attrazione.
2) Quanto agli impulsi, come scrive, per es. J. Nicolosi (Omosessualità maschile, p. 71, cfr. bibliografia), che utilizza numerose ricerche di altri studiosi: «È scientificamente provato che i fattori genetici e ormonali non svolgono un ruolo determinante nello sviluppo dell’omosessualità”. Se ci fosse un gene dell’omosessualità i gemelli omozigoti dovrebbero comportarsi in modo identico, mentre invece ci sono casi di gemelli, uno dei quali è omosessuale, l’altro eterosessuale.
3) Inoltre, se i geni e gli ormoni determinassero in modo invincibile le nostre pulsioni, non sarebbe possibile cambiare le proprie pulsioni omosessuali in pulsioni eterosessuali, come invece dimostra la pratica psicoterapeutica, con numerosissimi esempi (ne parla R. Marchesini in questo dossier).

Non è vero che l’identità maschile/femminile è indotta dalla società
L’odierna teoria del «gender» (genere), (che ha un sua radice prossima in Rousseau ed una remota nello gnosticismo antico) afferma che la nostra identità psicologica maschile o femminile non è legata al sesso con cui nasciamo biologicamente, bensì è indotta dall’educazione e dalla cultura in cui ci troviamo a vivere, perciò ognuno di noi dovrebbe essere lasciato libero di scegliere se vivere e agire come uomo, anche se i suoi organi genitali sono femminili, e come donna, anche se i suoi organi genitali sono maschili.
Se questa visione fosse vera, basterebbe educare in modo assolutamente identico i bambini e le bambine per ottenere che essi scelgano a loro piacimento attività e ruoli maschili o femminili, a seconda dei gusti. Invece un simile modello educativo è stato applicato ed ha dimostrato il contrario.

Un esperimento fallito
All’inizio del ‘900 fu attuato in alcuni kibbutz israeliani un esperimento, inteso ad educare in modo perfettamente identico ragazzi e ragazze e gli stessi sperimentatori hanno dovuto riconoscere il fallimento del loro tentativo. Infatti, a dispetto dei loro sforzi, i ragazzi sceglievano di occuparsi di macchine, compiti dirigenziali e altre tipiche attività maschile, mentre le ragazze mostravano un’inclinazione verso l’abbigliamento, la cosmesi, i lavori di assistenza, insomma verso le attività e le mansioni femminili (cfr. Manfred Spiro, Gender and culture: kibbutz women revisited, Schocken Books, New York 1980, pp. 92 ss).
E anche «bambini cresciuti […] come bambine da un’onnipotente madre femminilizzante […], amano in cuor loro le cose da ragazzi, anche se il loro comportamento non è proprio da ragazzi». Così come «una ragazza cresciuta con atteggiamenti sprezzanti nei confronti delle cose da donne e del ruolo femminile […] tuttavia può essere impressionata da altre ragazze e donne che irradiano femminilità» (J. Van den Aardweg, Omosessualità e speranza, cfr. bibliografia, p. 82).
Un altro esempio lo riporta R. Marchesini (cfr. www.ildomenicale.it/articolo.asp?id_articolo=330), che racconta la tragica vicenda di David Reimer, un bambino gemello omozigote, a cui fu chirurgicamente cambiato il sesso, perché il chirurgo voleva dimostrare che l’identità di genere è determinata dall’educazione ricevuta. I genitori vestivano ed educavano questo bambino come una bambina, gli attribuirono un nome femminile, in modo che credesse di essere una bambina e si comportasse in tal senso. Eppure David si muoveva e si comportava come un maschietto. Lo sperimentatore tentò in vari modi, anche con violenze psicologiche, di farlo comportare come una bambina, ma inutilmente. In seguito a David fu rivelata la terribile verità e, dopo alcuni anni, nel 2004, si è suicidato.

Valutazione morale dell’omosessualità
A questo punto abbiamo gli elementi per valutare l’atto omosessuale, che è sbagliato per almeno tre motivi.
1) La biologia ci dice che gli organi sessuali sono chiaramente finalizzati – quando si uniscono con altri organi sessuali – alla procreazione (e a instaurare la comunione tra amanti di sesso diverso, cfr. il prossimo punto); perciò atti sessuali che non possono mai essere generativi (gli atti omosessuali) a causa del loro modo strutturale di esercitarsi (e non a causa di una situazione di infertilità momentanea o sopraggiunta – cfr. continenza periodica, menopausa, ecc. – dei soggetti che li esercitano) sono contro natura (cioè contro la propria finalità) e dunque immorali.
2) La fondamentale complementarietà biologica dell’uomo e della donna è indice della loro tendenza ad unirsi sessualmente gli uni con le donne, le altre con gli uomini. «Gli apparati genitali maschile e femminile posseggono una anatomo-fisiologia che è evidentemente complementare […]. La morfologia genitale propria (recettiva per la donna, penetrativa per l’uomo), l’ambiente vaginale […], rendono l’incontro tra i genitali maschili e femminili naturalmente dotato di caratteristiche complementari, non riscontrabili nelle modalità di rapporto omosessuale» (cfr. Obiettivo Chaire, Abc, cfr. bibliografia, p. 41).
La complementarietà (come ha scritto la bioeticista C. Navarini, sull’agenzia web «Zenit» del 25.04.05) inoltre, «investe la struttura psicologica, emotiva, intellettuale e spirituale dell’uomo e della donna, rendendoli, proprio attraverso la loro alterità, capaci di donazione reciproca e totale e quindi di amore vero».
Dunque, di nuovo, vediamo che gli atti omosessuali sono contro natura (cioè contro la propria finalità) e dunque oggettivamente sbagliati.
Proprio l’assenza di tale complementarietà determina la strutturale precarietà, infedeltà e instabilità delle coppie omosessuali, che è molto più ampia di quella delle coppie eterosessuali, con o senza figli: un’ampia ricerca (A.P. Bell & M.S. Weinberg, Homosexualities: A study of diversity among men and women, Simon & Schuster, New York 1978) svolta su un campione americano, mostrava che su 574 uomini omosessuali soltanto tre avevano avuto un unico partner, l’1 % ne aveva avuti 3-4, il 2 % 5-9, il 3 % 10-14, l’8 % 25-49, il 9 % 50-99, il 15 % 100-249, il 28 % 1000 (mille) e più. Lo psicoterapeuta van den Aardweg lo ha potuto verificare nella sua pluriennale esperienza clinica.

Risposta ad alcune obiezioni comuni
Obiezione: a) in natura ci sono i comportamenti omosessuali degli animali, dunque l’omosessualità non è contro natura;
b) fa parte della sua natura, per esempio, che l’uomo si ammali, eppure nessuno pensa che l’uomo debba rispettare la sua natura e non cercare di guarire, cioè la natura non deve essere norma del comportamento umano.
Risposta: quando diciamo che gli atti omosessuali sono contro-natura, impieghiamo il termine «natura» nel significato di «ciò verso cui una cosa è finalizzata» (Aristotele: «la natura è il fine: […] ciò che ogni cosa è quando ha compiuto il suo sviluppo noi lo chiamiamo la sua natura», Politica, 1252 b 32).
Quindi: a) non impieghiamo il termine «natura» come sinonimo di «mondo animale (o vegetale)». L’uomo è qualitativamente diverso dagli animali, quindi non deve ispirarsi alla natura degli animali per giustificare un suo comportamento, altrimenti, poiché gli animali si uccidono, dovremmo giustificare l’omicidio. Il fatto che nel mondo animale ci siano comportamenti omosessuali non è un buon motivo per imitarli;
b) la malattia, per definizione, è una patologia che contrasta con le naturali finalità del nostro organismo.

Dove c’è strumentalizzazione non c’è amore
3) Amare significa volere il bene dell’altro (Aristotele, Retorica 2,4), «ti voglio bene» significa «io voglio il tuo bene». Così, l’atto sessuale è buono se è un’espressione di amore vero, se è una forma di donazione di sé, che instaura la comunione tra soggetti che lo esercitano perché si vogliono bene e questo affetto se lo esprimono nell’atto sessuale anche perseguendo il piacere reciproco. Nei casi in cui l’atto sessuale abbia come intenzione solo lo scopo di ottenere il proprio piacere, è una forma di strumentalizzazione dell’altro, dunque è egoistico e, perciò, ingiusto. Infatti, il piacere di per sé è buono, ma, come dice per es., Kant, nessun uomo può mai essere reso strumento di un altro, cioè bisogna sempre rispettare la dignità umana, in quanto l’uomo non è una cosa, bensì ha un valore inestimabile.
Ebbene, il rapporto omosessuale è eticamente cattivo, perché non instaura la comunione bensì è un rapporto di reciproca strumentalizzazione (cosa che può avvenire, in certi casi, ma non certo sempre, anche nel rapporto eterosessuale, il quale in altri crea invece la comunione interpersonale).

Parlano gli psicologi
Non ce lo stiamo inventando, lo dicono psicologi, come, per es., van den Aardweg: «i partner […] rimangono chiusi nel loro egocentrismo, l’uno sfrutta l’altro e se ne lascia sfruttare» (Un motivato no al matrimonio omosessuale, in Studi Cattolici n. 517, marzo 2004, p. 169); oppure come Nicolosi (Omosessualità maschile, pp. 86 e 89): «l’interesse primario [degli omosessuali] rimane il sesso e l’infatuazione iniziale non si trasforma mai in amore maturo», anche se magari alcuni di essi desidererebbero proprio un rapporto di amore. Così «attraverso la ricerca di partner occasionali all’esterno della coppia e la sessualizzazione dei suoi rapporti, l’omosessuale tenta di integrare la parte perduta di sé. Poiché è un’attrazione che nasce da un deficit personale, egli non è mai completamente libero di amare, e continua a considerare gli altri in funzione di ciò che gli possono dare. Il dono di sé gli sembra più un’occasione di impoverimento che di crescita personale».
Insomma, non c’è bisogno di seguire l’etica cristiana per esprimere la riprovazione morale dell’omosessualità, basta la ragione per biasimarla.
Così, se è vero che alcuni (meno di quanto solitamente si pensi) greci erano favorevoli all’omosessualità, già Platone (nonostante alcune ambiguità nel Simposio) la condanna ne Le Leggi, ed Aristotele è molto chiaro e forse molto duro: «fare all’amore tra maschi» è uno dei «comportamenti bestiali» (Etica Nicomachea 1148, 24-30).

Ricorda

«[…] è giusto che i maschi non si uniscano con i maschi o con i ragazzi, come se fossero donne, nell’unione sessuale […] perché questo è contro natura». (Platone, Leggi, 836 C)

Bibliografia
Joseph Nicolosi, Omosessualità maschile: un nuovo approccio, Sugarco 2002.
Idem e Linda Nicolosi, Omosessualità. Una guida per i genitori, Sugarco 2003.
Roberto Marchesini, Il feticcio (omosessuale) dell’omofobia, in «Studi Cattolici», n. 528 (2005), pp. 112-116.
Gerard van den Aardweg, Omosessualità e speranza. Terapia & guarigione nell’esperienza di uno psicologo, Ares 1995/2.
Idem, Una strada per il domani, guida all’(auto)terapia dell’omosessualità, Città Nuova 2004.
Idem, «Matrimonio» omosessuale & affidamento a omosessuali, in «Studi cattolici», 449/50 (1998), pp. 499-507.
Idem, Un motivato NO al «matrimonio omosessuale, «Studi cattolici», n. 517 (2004), pp. 164-186. Bruto Maria Bruti, Domande e risposte sul problema dell’omosessualità, in «Cristianità», n. 314 (2002), pp. 7-24.
Obiettivo Chaire, ABC. Per capire l’omosessualità, San Paolo 2005.