di Andrea Bassanini, Anne Saint-Martin e Stefano Scarpetta, lavoce.info 2 luglio 2008
In Italia solo il 46 per cento delle donne in età lavorativa ha un lavoro, uno dei livelli più bassi tra i paesi Ocse, superiore solo a quello di Messico e Turchia.
Pochi asili nido e detrazioni fiscali insufficienti per le famiglie
Un tasso di occupazione così basso è innanzitutto il risultato della scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro, dovuta a fattori ben noti, compresa la scarsa disponibilità di asili nido e altre strutture di supporto alle famiglie e l’insufficienza delle detrazioni fiscali a favore di coppie multi-reddito. La scarsa partecipazione femminile non è tuttavia l’unico fattore. Le opportunità di lavoro offerte alle donne tendono a essere meno attraenti di quelle offerte agli uomini. Per esempio, ancora nel 2005 il 15 per cento delle donne tra i 25 e i 49 anni aveva un contratto di durata determinata, contro il 9 per cento degli uomini nella stessa fascia di età (figura 1). Inoltre, come in altri paesi Ocse, le donne, pur a parità di qualificazione, tendono a essere pagate molto meno degli uomini. In altre parole, seppure negli ultimi anni si è visto un numero crescente di donne accedere a posti di comando nelle imprese e nella vita pubblica, anche in Italia, esistono ancora barriere più o meno visibili che limitano il completo inserimento delle donne nel mondo del lavoro.
Diversità di trattamento in base al sesso
Diversi fattori entrano in campo per spiegare questi differenziali nell’accesso al lavoro e nelle retribuzioni tra donne e uomini pur con qualificazioni simili. Il primo è sicuramente il campo di specializzazione professionale: le donne tendono a concentrarsi in settori a più bassa produttività e più soggetti a fluttuazioni della domanda dove i contratti a durata determinata sono prevalenti. Ma anche negli studi empirici che tengono conto di questi, e altri, fattori “oggettivi”, una parte rilevante (circa un quarto) dei differenziali nei tassi d’occupazione e nelle retribuzioni non può essere attribuito a caratteristiche individuali. Sia negli avanzamenti professionali che nelle assunzioni, esistono “soffitti di vetro” e “porte di vetro” che penalizzano le donne, e sono, entro certi limiti, dovuti a pratiche discriminatorie nel mercato del lavoro, vale a dire a una diversità di trattamento tra individui ugualmente produttivi unicamente a causa della loro appartenenza a gruppi diversi, quali il sesso.
La liberalizzazione dei mercati fa diminuire la discriminazione?
Identificare pratiche discriminatorie nel mercato del lavoro non è semplice. (1) Un approccio utilizzato in letteratura, e suggerito originariamente dal premio nobel Gary Becker nel 1957, consiste nell’analizzare l’effetto che un aumento nel grado di concorrenza nei mercati di beni e servizi ha sulle disparità di salario o occupazione tra sessi (o razze). Becker, infatti, suggerì che se la discriminazione è basata su pregiudizi da parte dei datori di lavoro, ed è quindi inefficiente, una maggiore concorrenza, riducendo i margini di profitto, ridurrebbe altresì la possibilità per le imprese di usare pratiche discriminatorie, pena la perdita di quote di mercato e il rischio di mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’impresa stessa.
Una ricerca Ocse mostra che le pratiche discriminatorie persistono
Una ricerca pubblicata nelle Prospettive occupazionali dell’Ocse mette in relazione la liberalizzazione dei mercati di beni e servizi di 21 paesi Ocse tra il 1975 e il 2003 con le disparità d’occupazione e salario tra uomini e donne. (2) Se Becker ha ragione, ci si dovrebbe aspettare che la maggiore concorrenza generata da liberalizzazioni e privatizzazioni abbia portato a una riduzione nei differenziali d’occupazione e di retribuzione con effetti più marcati là dove l’effetto delle riforme è stato maggiore. Lo studio tiene conto di un insieme di altri fattori che possono incidere sui differenziali, tra cui l’evoluzione della domanda di lavoro aggregata, il differenziale di partecipazione tra i sessi, l’evoluzione del potere di negoziazione dei lavoratori, e il secolare aumento della parte dei servizi nell’economia. I risultati sono sorprendenti: circa l’8 per cento delle disparità d’occupazione (e fino al 30 per cento delle disparità di salario orario) possono essere associate a pratiche discriminatorie.
Legislazione antidiscriminatoria: la situazione italiana
Se la progressiva liberalizzazione dell’economia può contribuire a ridurre le discriminazioni sul lavoro, una rigorosa legislazione è uno strumento irrinunciabile. Ma la legislazione può agire da deterrente solo se è efficacemente applicata. Il problema è che in molti paesi, tra cui l’Italia, l’approccio legale è essenzialmente volontaristico: la repressione della discriminazione dipende principalmente dalla volontà delle vittime di sporgere querela. Un requisito prioritario è dunque che i cittadini siano informati dei loro diritti, in modo da poterli far valere. Tuttavia, gli italiani appaiono particolarmente mal informati sull’illegalità di certe pratiche: per esempio del fatto che la legge proibisce di discriminare al momento dell’assunzione (figura 2). Questo mette in luce la forte necessità di promuovere campagne d’informazione tra l’opinione pubblica.
Inoltre, per la vittima deve essere possibile poter portare avanti una causa di discriminazione sino alla sentenza finale del tribunale. Ma dimostrare la sussistenza di pratiche discriminatorie non è banale, perché l’informazione è in generale esclusivamente nelle mani dei datori di lavoro.
Al querelante l’onere della prova, ma non è facile
In alcuni paesi, per esempio Australia, Canada e Stati Uniti, autorità indipendenti svolgono vere e proprie indagini, il che permette di sormontare il problema. I paesi europei, inclusa l’Italia per la discriminazione sessuale, hanno optato per il principio dello spostamento dell’onere della prova: il querelante deve provare solo l’esistenza di una diversità di trattamento, potenzialmente dovuta a discriminazione, mentre il datore di lavoro ha l’onere di provare che tale trattamento non è il risultato di pratiche discriminatorie. Tuttavia, anche provare un trattamento diverso può essere proibitivo per il querelante. In particolare in Italia, perché, al contrario di molti altri paesi, nessuna protezione speciale è accordata a testimoni, per esempio colleghi, contro possibili ritorsioni del datore di lavoro.
Sanzioni efficaci
Due altri fattori appaiono cruciali per dare al divieto di discriminare un efficace potere deterrente, ed entrambi sono sostanzialmente assenti o inutilizzati in Italia. Primo, la repressione della discriminazione è più efficace se non è basata solo su un meccanismo volontaristico, ma sull’attività di autorità competenti a compiere indagini anche in assenza di querele individuali, come avviene in Canada, Gran Bretagna, Norvegia o Stati Uniti. Secondo, l’impresa riconosciuta colpevole di discriminazione deve poter essere sanzionata al di là della compensazione finanziaria dovuta alla vittima. Negli Stati Uniti, per esempio, certi studi mostrano che l’introduzione della pena di esclusione dai contratti pubblici ha avuto un enorme impatto. Una norma simile esiste da parecchi anni nell’ordinamento italiano, ma non è mai stata applicata.
Note
(1) Per esempio, gli studi sperimentali, come i cosiddetti test situazionali, che sono molto popolari nel caso della discriminazione razziale, possono difficilmente fornire un’idea dell’effetto aggregato della discriminazione, soprattutto nel caso uomo-donna. È ben noto che in un certo numero di professioni le imprese preferiscono le donne e non gli uomini – si pensi per esempio a un posto da segretaria. Quindi, nel caso della discriminazione basata sul sesso, i test situazionali sono, inevitabilmente, affetti dal tipo di professione inclusa nel campione.
(2) Oecd Employment Outlook 2008, Capitolo 3. www.oecd.org/els/employment/outlook.
Pochi asili nido e detrazioni fiscali insufficienti per le famiglie
Un tasso di occupazione così basso è innanzitutto il risultato della scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro, dovuta a fattori ben noti, compresa la scarsa disponibilità di asili nido e altre strutture di supporto alle famiglie e l’insufficienza delle detrazioni fiscali a favore di coppie multi-reddito. La scarsa partecipazione femminile non è tuttavia l’unico fattore. Le opportunità di lavoro offerte alle donne tendono a essere meno attraenti di quelle offerte agli uomini. Per esempio, ancora nel 2005 il 15 per cento delle donne tra i 25 e i 49 anni aveva un contratto di durata determinata, contro il 9 per cento degli uomini nella stessa fascia di età (figura 1). Inoltre, come in altri paesi Ocse, le donne, pur a parità di qualificazione, tendono a essere pagate molto meno degli uomini. In altre parole, seppure negli ultimi anni si è visto un numero crescente di donne accedere a posti di comando nelle imprese e nella vita pubblica, anche in Italia, esistono ancora barriere più o meno visibili che limitano il completo inserimento delle donne nel mondo del lavoro.
Diversità di trattamento in base al sesso
Diversi fattori entrano in campo per spiegare questi differenziali nell’accesso al lavoro e nelle retribuzioni tra donne e uomini pur con qualificazioni simili. Il primo è sicuramente il campo di specializzazione professionale: le donne tendono a concentrarsi in settori a più bassa produttività e più soggetti a fluttuazioni della domanda dove i contratti a durata determinata sono prevalenti. Ma anche negli studi empirici che tengono conto di questi, e altri, fattori “oggettivi”, una parte rilevante (circa un quarto) dei differenziali nei tassi d’occupazione e nelle retribuzioni non può essere attribuito a caratteristiche individuali. Sia negli avanzamenti professionali che nelle assunzioni, esistono “soffitti di vetro” e “porte di vetro” che penalizzano le donne, e sono, entro certi limiti, dovuti a pratiche discriminatorie nel mercato del lavoro, vale a dire a una diversità di trattamento tra individui ugualmente produttivi unicamente a causa della loro appartenenza a gruppi diversi, quali il sesso.
Figura 1. Proporzione degli occupati con contratti a durata determinata, 2005
La liberalizzazione dei mercati fa diminuire la discriminazione?
Identificare pratiche discriminatorie nel mercato del lavoro non è semplice. (1) Un approccio utilizzato in letteratura, e suggerito originariamente dal premio nobel Gary Becker nel 1957, consiste nell’analizzare l’effetto che un aumento nel grado di concorrenza nei mercati di beni e servizi ha sulle disparità di salario o occupazione tra sessi (o razze). Becker, infatti, suggerì che se la discriminazione è basata su pregiudizi da parte dei datori di lavoro, ed è quindi inefficiente, una maggiore concorrenza, riducendo i margini di profitto, ridurrebbe altresì la possibilità per le imprese di usare pratiche discriminatorie, pena la perdita di quote di mercato e il rischio di mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’impresa stessa.
Una ricerca Ocse mostra che le pratiche discriminatorie persistono
Una ricerca pubblicata nelle Prospettive occupazionali dell’Ocse mette in relazione la liberalizzazione dei mercati di beni e servizi di 21 paesi Ocse tra il 1975 e il 2003 con le disparità d’occupazione e salario tra uomini e donne. (2) Se Becker ha ragione, ci si dovrebbe aspettare che la maggiore concorrenza generata da liberalizzazioni e privatizzazioni abbia portato a una riduzione nei differenziali d’occupazione e di retribuzione con effetti più marcati là dove l’effetto delle riforme è stato maggiore. Lo studio tiene conto di un insieme di altri fattori che possono incidere sui differenziali, tra cui l’evoluzione della domanda di lavoro aggregata, il differenziale di partecipazione tra i sessi, l’evoluzione del potere di negoziazione dei lavoratori, e il secolare aumento della parte dei servizi nell’economia. I risultati sono sorprendenti: circa l’8 per cento delle disparità d’occupazione (e fino al 30 per cento delle disparità di salario orario) possono essere associate a pratiche discriminatorie.
Legislazione antidiscriminatoria: la situazione italiana
Se la progressiva liberalizzazione dell’economia può contribuire a ridurre le discriminazioni sul lavoro, una rigorosa legislazione è uno strumento irrinunciabile. Ma la legislazione può agire da deterrente solo se è efficacemente applicata. Il problema è che in molti paesi, tra cui l’Italia, l’approccio legale è essenzialmente volontaristico: la repressione della discriminazione dipende principalmente dalla volontà delle vittime di sporgere querela. Un requisito prioritario è dunque che i cittadini siano informati dei loro diritti, in modo da poterli far valere. Tuttavia, gli italiani appaiono particolarmente mal informati sull’illegalità di certe pratiche: per esempio del fatto che la legge proibisce di discriminare al momento dell’assunzione (figura 2). Questo mette in luce la forte necessità di promuovere campagne d’informazione tra l’opinione pubblica.
Figura 2. Meno del 30% degli italiani sa che discriminare al momento dell’assunzione è illegale
Inoltre, per la vittima deve essere possibile poter portare avanti una causa di discriminazione sino alla sentenza finale del tribunale. Ma dimostrare la sussistenza di pratiche discriminatorie non è banale, perché l’informazione è in generale esclusivamente nelle mani dei datori di lavoro.
Al querelante l’onere della prova, ma non è facile
In alcuni paesi, per esempio Australia, Canada e Stati Uniti, autorità indipendenti svolgono vere e proprie indagini, il che permette di sormontare il problema. I paesi europei, inclusa l’Italia per la discriminazione sessuale, hanno optato per il principio dello spostamento dell’onere della prova: il querelante deve provare solo l’esistenza di una diversità di trattamento, potenzialmente dovuta a discriminazione, mentre il datore di lavoro ha l’onere di provare che tale trattamento non è il risultato di pratiche discriminatorie. Tuttavia, anche provare un trattamento diverso può essere proibitivo per il querelante. In particolare in Italia, perché, al contrario di molti altri paesi, nessuna protezione speciale è accordata a testimoni, per esempio colleghi, contro possibili ritorsioni del datore di lavoro.
Sanzioni efficaci
Due altri fattori appaiono cruciali per dare al divieto di discriminare un efficace potere deterrente, ed entrambi sono sostanzialmente assenti o inutilizzati in Italia. Primo, la repressione della discriminazione è più efficace se non è basata solo su un meccanismo volontaristico, ma sull’attività di autorità competenti a compiere indagini anche in assenza di querele individuali, come avviene in Canada, Gran Bretagna, Norvegia o Stati Uniti. Secondo, l’impresa riconosciuta colpevole di discriminazione deve poter essere sanzionata al di là della compensazione finanziaria dovuta alla vittima. Negli Stati Uniti, per esempio, certi studi mostrano che l’introduzione della pena di esclusione dai contratti pubblici ha avuto un enorme impatto. Una norma simile esiste da parecchi anni nell’ordinamento italiano, ma non è mai stata applicata.
Note
(1) Per esempio, gli studi sperimentali, come i cosiddetti test situazionali, che sono molto popolari nel caso della discriminazione razziale, possono difficilmente fornire un’idea dell’effetto aggregato della discriminazione, soprattutto nel caso uomo-donna. È ben noto che in un certo numero di professioni le imprese preferiscono le donne e non gli uomini – si pensi per esempio a un posto da segretaria. Quindi, nel caso della discriminazione basata sul sesso, i test situazionali sono, inevitabilmente, affetti dal tipo di professione inclusa nel campione.
(2) Oecd Employment Outlook 2008, Capitolo 3. www.oecd.org/els/employment/outlook.
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