Cosa è l'hate speech e come combatterlo

di Redazione, 3 giugno 2020

Si parla molto di hate speech e di discorsi di odio. Da anni ci sono proposte più o meno tecniche o normative che vorrebbero affrontare il fenomeno. Ma cosa è il cosiddetto "odio in rete"?

Quello che noi chiamiamo odio in rete o hate speech è la protesta espressa da persone comuni senza alcun filtro.

È una dinamica molto importante da studiare, perché non possiamo continuare a ripeterci che si stava meglio quando si vedeva meno. Infatti non è che prima quel sentimento di odio o quella modalità di dire le cose in maniera brutale e volgare non esistesse nelle persone comuni. Già esisteva, la rete ha solo permesso di portarlo fuori, di farlo salire a galla, di mostrarlo a tutti.
 
Certo, come sempre fa tecnologia, ha permesso di portarlo fuori con una violenza aumentata perché la tecnologia da sempre aumenta le capacità umane e le amplifica. Bisogna quindi affrontare il fenomeno dell'odio in rete prendendolo in considerazione non come evento principale ma come a valle di un qualcosa che succede prima che questo odio si manifesti. Altrimenti rischiamo di cercare di combattere l’odio senza capire da dove viene, di curare i sintomi e non le cause.

L'hate speech e la difficoltà di gestire la differenza

Negli ultimi anni è completamente cambiato lo scenario della comunicazione e del vivere civile, del vivere in società. Prima di internet su larga scala e dei social, l'incontro con la differenza era qualcosa che ci capitava per decisioni intenzionali in momenti specifici nella nostra vita: quando facevamo un viaggio, se facevamo un certo tipo di professione che ci richiedeva di mettere insieme contesti sociali differenti, o in situazioni sociali con chiari limiti contestuali (il ristorante con amici di amici, nuovi parenti che si univano alla famiglia, etc) altrimenti un cittadino comune poteva vivere nel suo contesto anche molto omogeneo senza avere grandi contatti con la differenza. Poteva avere una bolla, una eco chamber, grande quanto la sua famiglia, le sue comitive, il suo paese, la sua cittadina, le sue frequentazioni professionali etc.

Oggi tutto ciò è completamente cambiato. Grazie alla rete non solo ognuno incontra quotidianamente la differenza, ma la incontra senza che questa sia mediata dal contesto o dal linguaggio non verbale (per esempio incontrare uno che la pensa diversamente perché è venuto al ristorante con degli amici in comune).

Banalizzando: uno scrive su Facebook cosa pensa e molto probabilmente il suo pensiero verrà commentato da persone lontanissime da lui, con un linguaggio lontanissimo da lui, con una visione del mondo completamente opposta alla sua. Questo crea, non essendoci competenze digitali o di gestione della mediazione delle differenze, la reazione più viscerale, più istintiva, cioè la reazione del litigio (spesso scomposto).
Ci si ritrova subito nello scontro, nel chiudersi in gruppi di opinione omogenee, polarizzando le opinioni e distanziando tutto quello che non è affine al pensiero di chi non sa gestire la differenza.

Per risolvere questo problema, cioè quello della protesta espressa senza filtro, dell’incapacità di gestire le differenze senza scadere nel conflitto e senza risolverlo rifugiandosi nel politicamente corretto o nella chiusura in un gruppo di opinione omogeno, servono processi culturali. Serve un processo che non parta dalla fine, cioè dal fissare regole o dall’applicare sanzioni a chi sbaglia (le famose leggi invocate da chi vuole “normare” il web). Non si può partire dal perseguire l’odio, che pure va punito se sfocia in reato, però non si può combattere la battaglia soltanto quando ormai le cose sono state dette e sono andate male.

Il punto è andare alla radice fino ad arrivare a un'idea di educazione, di un'ondata culturale che aiuti gran parte della popolazione a sviluppare capacità di mediazione e a sviluppare la capacità di vivere costantemente connessi, o anche iperconnessi, perché questa è la nostra vita oggi. Non è più vita in cui l'online è solo una parte, in cui accendiamo internet o ci colleghiamo a internet, ormai siamo costantemente tra on-line e off-line. Non per nulla è stata coniata questa espressione molto proficua che è “On-Life”.

Siamo talmente tanto dentro l'online che ce ne accorgiamo solo quando manca la connessione.  Un po' come l'elettricità: la diamo talmente per scontata nella nostra vita quotidiana che percepiamo quanto ne siamo dipendenti solo quando salta la corrente: lì capiamo quanto la nostra sia una società “elettrica”. Un po’ come quando Facebook è down e allora tutti vanno su Twitter a commentare che il social di Zuckerberg non è accessibile.

Abbiamo già vissuto un periodo simile, cioè quello del dopoguerra, in cui avevamo bisogno di una massiccia alfabetizzazione della popolazione. Eravamo perfettamente consapevoli che senza l'alfabetizzazione non saremmo cresciuti come democrazia. Che senza il saper leggere, scrivere e far di conto di una gran parte la stragrande maggioranza della popolazione non saremmo riusciti a crescere come Paese.

In un certo senso abbiamo bisogno di una nuova alfabetizzazione per fare in modo che la popolazione sia capace di vivere in relazione con questa differenza costante e con il suo essere online che amplifica le sue azioni. Bisogna ritornare a una alfabetizzazione di massa, perché finora lo sforzo è stato quello di far arrivare internet nelle case degli italiani senza mai spiegargli come usarlo in maniera intelligente o costruttiva. È stato dato il tasto on/off senza spiegare cosa si può fare con quel mezzo, lasciando il resto alla singola iniziativa delle persone. Sapere gestire la differenza è una delle risorse fondamentali di una nuova alfabetizzazione che dovrà staccarsi dal lato tecnico (i software, i programmi, il bitrate, etc) e concentrarsi sull'educazione dei singoli internauti e cittadini.  

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