Ha ragione Bodei quando registra che la nostra epoca è contrassegnata da una profonda crisi. “Dio è morto. Dio resta morto. E noi l'abbiamo ucciso” scriveva Nietzsche alludendo alla fine, in occidente, dell’influenza del soprasensibile nella vita dell’uomo moderno. Oggi di fatto si è andati anche oltre: insieme a Dio è finito nel baratro anche l’uomo stesso e la sua ragione, visto che non sembra più capace di dare un senso alle cose, alla vita e alla storia.
Questa crisi si manifesta in numerosi modi. Da una parte c’è l’atteggiamento scientista che riduce l’uomo e il mondo a mera materia calcolabile, basata sul solo criterio dell’efficacia sperimentale e indipendente da qualsiasi etica. Dall’altra c’è il fanatismo, sia esso quello religioso o quello ideologico, entrambi caratterizzati dal credere senza il vaglio critico della ragione. E poi c’è anche un certo irrazionalismo che si presenta sotto diverse forme: dagli stili di vita “sballati” di certa popolazione soprattutto giovane, priva di progettualità, che vive alla giornata; fino ad arrivare alle nuove forme di superstizione, esoterismo, magia e quant’altro. A questo si aggiunge la dilagante sensazione di impotenza dei governi nazionali, che hanno poco margine di intervento e sono costretti ad accettare che i veri motori della politica internazionale sono le multinazionali. Entità che riescono difficilmente ad andare oltre la prospettiva del mero perpetuare se stesse.
In tutti questi atteggiamenti il denominatore comune è sempre lo stesso: la scarsa fiducia nella razionalità umana, l’impossibilità di scorgere il vero, il buono e il giusto, che siano per tutti validi come prospettiva finale dell’agire. In un certo senso è la definitiva fine della grande promessa illuminista di una nuova umanità consapevole, cosciente e padrona del suo futuro.
È invece sulla questione del ritorno alla religiosità che l’analisi di Bodei mostra qualche perplessità. Siamo proprio sicuri che il recente riemergere della dimensione religiosa sia solo una reazione di fronte al vuoto di senso, un rifugio nella Provvidenza e nella vita futura di fronte all’assenza di speranza per questo mondo?
In realtà il cristianesimo, tutt’altro che religione della consolazione rassegnata, è stato il primo vero illuminismo della storia. Nell’epoca pagana religio e realtà erano poste su piani differenti. Il culto era comunemente visto come uno strumento politico e di coesione sociale, mentre i filosofi, coloro che erano alla ricerca della verità, liquidavano l’olimpo come falso, irrazionale, irreale.
I cristiani si inserirono in questa cultura portando sì un messaggio religioso, ma lo fecero sentendosi più vicini ai filosofi che ai sacerdoti: il Dio di cui parlavano era precisamente quella verità cercata dai filosofi con la forza della ragione. La conoscenza era, ed è, per i cristiani il fondamento della fede. Non ci può essere incontro con Dio, se prima non c’è un corretto uso di ragione, un corretto percorso per cercare la verità, visto che essa corrisponde a Dio.
Per la prima volta nella storia, con il cristianesimo, la razionalità e la conoscenza si fecero un tutt’uno con la religione e non più due sfere completamente separate. I cristiani furono i primi a smascherare la falsità e l’irrazionalità delle pratiche superstiziose delle religioni pagane, riportando il discorso sul piano della conoscenza. Non a caso lo sviluppo della teologia cristiana è andato di pari passo con la filosofia generando una tradizione di pensiero che non ha eguali in nessun’altra parte del mondo.
Il cristiano è tutt’altro che uno che delega alla Provvidenza le sue aspirazioni. Il cristiano crede nell’intervento di Dio nel mondo ma, allo stesso tempo, sente come obbligo grave quello di utilizzare al meglio le capacità che Dio gli ha donato (fra le quali la razionalità) e di metterle a frutto, fiducioso che questa sua ricerca abbia un senso e un fondamento.
E qui emerge un’ulteriore aspetto: nel cristianesimo la via per arrivare alla verità non è solo razionale, essa è inscindibilmente legata con l’impegno ad aderirvi personalmente. In altre parole la verità non solo si conosce intellettualmente ma si deve desiderare esistenzialmente, si deve vivere. Da qui l’unità indissolubile tra fede e carità, tra conoscere e agire, tra vero e bene, tra vita e pensiero.
Il cristiano scorge che il vero e il bene sono la stessa cosa. Questa è la radice di tanto impegno da parte della Chiesa nei confronti dei poveri, degli emarginati, dei bisognosi, a difesa della giustizia e del miglioramento sociale. “Libertè, egalitè, fraternitè” disse Giovanni Paolo II in Francia suscitando la sorpresa di diversi intellettuali e commentatori. Il grande Woityla volle riappropriarsi di quel triplice ideale, riconosciuto da tutti come il simbolo della révolution, per riaffermare che la paternità di quei principi è del cristianesimo. Ogni battezzato dovrebbe sentirsi interpellato in prima persona a trasformare questi ideali in azioni concrete nella sua vita, sentendosi sulle spalle la responsabilità di come sta andando il mondo, oggi e adesso. Convinto che il paradiso non è di questo mondo, ma non per questo meno impegnato a migliorarlo.
L’attuale crisi del pensiero moderno non è altro che il risultato di quel tentativo di scindere la conoscenza dalla trascendenza che a lungo andare ha appiattito le prospettive umane, lasciando la ragione sola e incapace di autolegittimarsi, sfociando infine nel relativismo o nell’irrazionalismo che non soddisfano più l’uomo. Anzi lo gettano nell’inquietudine di un mondo che sembra avanzare privo di senso.
È per questo che oggi si assiste a un ritorno di interesse per la religione. Non per una fuga ma perché in questa nostra epoca i cristiani sono gli ultimi rimasti ad avere fiducia nella capacità razionale dell’uomo, nella possibilità di trovare ancora ragioni valide per tutti che diano senso all’agire personale e collettivo. Il tentativo di separare la ragione dalla fede non ha dato i risultati sperati. Forse è giunta l’ora di riconoscerlo con coraggio e cominciare a ricucire quello strappo.