Esiste in Italia un "gender pay gap"? Sembrerebbe di no

di Raffaele Buscemi, 21 luglio 2020

Il cosiddetto gender pay gap sarebbe quella disparità di salario tra uomo e donna, riportata soprattutto in ambito statunitense ma di cui si inizia a sentir parlare anche in Italia. Il focus del termine si basa sul fatto che a parità di mansioni o ruolo una donna guadagnerebbe il 70% dello stipendio di un uomo. Ma è possibile questo fenomeno in una nazione dove la maggior parte dei lavori sono vincolati da contratti collettivi nazionali di lavoro divisi per categorie? Una donna guadagna veramente meno di un uomo a parità di lavoro?

In breve, no. Almeno in Italia. Si tratta di un mito che nasce da un errore di fondo, ovvero l’aver confrontato lo stipendio medio complessivo maschile con il corrispettivo femminile. In parole povere, hanno sommato gli stipendi di tutti gli uomini da una parte e quelli di tutte le donne dall’altra parte, confrontando poi le due medie. Da qui la famigerata affermazione secondo cui una donna guadagnerebbe solo 77 centesimi per ogni dollaro guadagnato da un uomo.
In realtà, l’unica cosa che il divario tra gli stipendi medi può dimostrare è che uomini e donne non fanno né gli stessi lavori né li fanno alle stesse condizioni, e che quindi c’è ancora strada da fare per superare i ruoli di genere che condizionano le loro scelte di vita. Ma NON può essere usato per affermare che le donne siano discriminate o pagate di meno, perché il gap non è su base individuale. In altre parole, se una donna fa lo stesso lavoro di un uomo, ha le stesse esatte mansioni, lavora le stesse ore, ha la stessa anzianità e non prende congedi più lunghi, la sua paga sarà esattamente uguale a quella del collega di sesso maschile. Questo ragionamento include anche le libere professioni dove il singolo professionista decide i prezzi delle proprie prestazioni. 

Approfondiamo ciascuno di questi fattori:

  • Lavori diversi. Le donne scelgono più spesso lavori a basso salario mentre gli uomini ad alto salario (vedasi la maggioranza di donne tra le maestre e la maggioranza di uomini tra gli ingegneri). Questo accade perché, in moltissimi contesti, sugli uomini pesano ancora tante aspettative (“l’uomo deve mantenere la famiglia”, “il valore di un uomo dipende dai soldi che riesce a portare a casa”, ecc.) che li portano a scartare, quando possibile, i lavori meno pagati. Gli uomini hanno una maggior pressione a guadagnare. 
  • Mansioni diverse. Alcuni studi parlano di “stesso lavoro” ma ne adottano una definizione così ampia che finisce per inglobare tutti quelli che lavorano presso una data azienda senza distinguere tra le mansioni al suo interno. Eppure, non ha molto senso aspettarsi che una dirigente guadagni quanto un segretario e viceversa.
  • Ore lavorate. Le donne lavorano part-time più spesso degli uomini, e anche nel full-time tendono a lavorare meno ore dei loro colleghi di sesso maschile. Ad esempio, un recente studio ha mostrato che tra coloro che lavorano a tempo pieno (più di 35 ore settimanali), le donne si concentrano nella fascia che va dalle 35 alle 41 ore. Oltre questo limite gli uomini cominciano a essere sovrarappresentati, e la forbice si allarga man mano che ci si avvicina agli estremi. Dei lavoratori (uomini) a tempo pieno il 25,1% lavora più di 41 ore settimanali e il 5,8% più di 60 ore, contro rispettivamente il 14,3% e il 2,5% delle lavoratrici.
    A riprova di quanto finora detto, un think-thank è giunto alla conclusione che per chiudere il pay gap gli uomini dovrebbero lavorare meno ore e le donne più ore.
  • Maternità. Gli uomini non hanno ancora diritto a un congedo di paternità della stessa lunghezza di quello delle donne, e questo contribuisce a un maggior numero di ore lavorate. Inoltre, per una serie di condizionamenti dovuti ai ruoli di genere, molte donne dopo la maternità diventano il caregiver primario e passano al part-time per conciliare le due attività. Questo, di riflesso, porta i loro compagni a compensare il mancato guadagno lavorando più ore.
  • Disponibilità a spostarsi. Secondo una nuova ricerca condotta dall’Economisch Bureau della banca statale olandese ABN AMRO, le donne in media cercano lavoro più vicino casa rispetto agli uomini, una preferenza che resta inalterata anche al variare di età e grado di istruzione. Questo non può sorprenderci, alla luce di quanto abbiamo detto al punto precedente: la divisione tradizionale dei ruoli crea per la donna un deterrente agli spostamenti, e per l’uomo un incentivo. Se la tua disponibilità a spostarti è minore, la tua scelta sarà più limitata e minori saranno anche le tue possibilità di guadagno.
  • Esperienza pregressa. Poiché gli uomini non hanno quasi mai come possibilità socialmente accettata quella di fare i casalinghi, ci sono più uomini che lavorano che donne. Questo fa sì che anche mentre il progressivo ingresso delle donne nella forza lavoro riequilibra (lentamente) le cose, sui grandi numeri gli uomini abbiano più anzianità delle donne, e anche questo ha un suo peso sulla paga.
  • Negoziazioni salariali. Pare che in molte situazioni gli uomini tendano a negoziare maggiormente, e questo è in linea con le aspettative di provider dovute ai ruoli di genere (se è vero che i soldi piacciono a tutti, è anche vero che l’aspettativa di mantenere una famiglia da soli cade più sugli uomini che sulle donne). Citiamo: “[…] quando non viene specificato che gli stipendi sono negoziabili, è più frequente che siano gli uomini a negoziare, laddove le donne più di frequente segnalano la loro disponibilità a lavorare con stipendi più bassi.”

Abbiamo poi uno studio del Department of Labor statunitense, il quale è arrivato alla “conclusione inequivocabile che le differenze nella remunerazione tra uomini e donne sono il risultato di una moltitudine di fattori e che i dati grezzi sul wage gap non dovrebbero essere usati per giustificare un’azione correttiva. Infatti, potrebbe non esserci nulla da correggere. Le differenze che troviamo nei dati grezzi degli stipendi potrebbero essere quasi del tutto il risultato delle scelte individuali dei lavoratori e delle lavoratrici.”

Come se non bastasse, ci sono altri due elementi che ci fanno capire come il pay gap sia difficile da realizzarsi, almeno in Italia.

1) È illegale. Questo vale per (almeno) la stragrande maggioranza dei paesi occidentali. In Italia la parità salariale è già da tempo esplicitamente prevista dall’articolo 37 della Carta Costituzionale e ribadita dalla legge n. 741 del 1956, nonché dalla n. 903 del 1977. Già sarebbe impensabile di suo che i sindacati inseriscano il pay gap nei CCNL (Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro), se poi ci aggiungiamo che è incostituzionale ci sarebbe ben poco da discutere.

2) Produrrebbe effetti che invece non osserviamo. Infatti, se davvero fosse possibile pagare di meno una donna a parità di lavoro svolto, alle aziende – specie quelle con difficoltà economiche – converrebbe assumere più donne che uomini. Risulta davvero difficile trovare ragionamenti che possano conciliare l’esistenza di un pay gap con il dato fattuale che, complessivamente, non ci sia una preferenza per le donne nelle assunzioni. Si sta parlando, insomma, di aria fritta.

Per rispondere alla domanda che fa da titolo a quest’articolo possiamo quindi dire che di vero, in tutta questa vicenda del pay gap, ci sono solo le conseguenze di questa azione di propaganda. Ad esempio, in Galles le femministe premono affinché le donne paghino meno tasse, chiamando questo privilegio “tassazione gender-positive”, in sostituzione di quella “gender-neutral”. E questo nonostante il fatto che nel Regno Unito le donne come gruppo paghino circa 75 miliardi di sterline in meno di tasse ogni anno rispetto agli uomini. Una vera tassazione egualitaria porterebbe le donne a pagare più tasse rispetto ad ora, non meno.

A Berlino, qualche mese fa, c’è stata persino una giornata di “sensibilizzazione” sul pay gap nella quale gli uomini erano costretti a pagare più delle donne per un biglietto dei mezzi pubblici.